Vico Paolo Michetti

Ho sempre provato un certo piacere voyeristico nel visitare case abbandonate, a volte solo, a volte accompagnato da una fida compagna. Nell’osservare quei mobili antichi, quelle mattonelle così belle e di altri tempi, quei vestiti lasciati in ordine dentro gli armadi, tutte parole di una storia da inventare.

Questa volta, però, la casa non era abbandonata. Questa volta, però, la storia purtroppo la conosco e non la posso inventare. Questa volta la casa era quella di mia nonna, la casa dove mia madre e le sue sorelle nacquero e vissero per tanti anni.

Ricordo le tante domeniche passate da bambino e da ragazzino in quella casa, una tipica del centro storico ragusano, di quelle che si sviluppano su più piani, con scale strette e ben ripide. Poche le stanze per ogni piano, così come poca era la riservatezza degli ambienti, giacché spesso una camera da letto era corridoio verso un’altra allo stesso tempo. Ricordo come il secondo ed il terzo piano di questa casa fossero un luogo sacro. Entrarvici era come mettere piede in un museo degli anni sessanta italiani: frigorifero bombato a pedale, divanetti rossi, mattonelle e carta da parati coloratissime e vivacissime.

Quando mia nonna se ne andò, quasi vent’anni fa, decidemmo di affittare la casa dopo un po’. All’inizio andò bene, poi benino, poi male, infine malissimo. L’ultimo inquilino, colui che la abitò per più tempo tra tutti gli inquilini, ne ha avuto totale incuria.  L’amore per quelle pareti, per quelle stanze e per tutte le storie che mia nonna vi ha vissuto, sono stati distrutti. L’illibatezza del secondo e del terzo piano, ma anche la normale e serena quotidianità del primo, sono stati sventrati.

Quando finalmente l’inquilino ha lasciato la casa, e quando col cuore fermo abbiamo constatato la metamorfosi avvenuta in quella basilica di ricordi, la decisione da prendere era purtroppo una sola. Svuotare la casa, liberare lei ed i nostri occhi dello scempio scellerato di cui soffriva.

Prima di lasciare Ragusa, qualche giorno fa, sono tornato in quella casa. Volevo, seppur a malincuore, vedere quella casa dopo circa dieci anni che non vi entravo. Forse sarebbe meglio dire che piuttosto che vedere, volevo confrontare i miei ricordi con la vacua realtà delle cose. L’ho voluto fare portandomi la macchina fotografica.

Non più il sacro ed il puro tra le pareti, ma il nero dello stillicidio e dell’ignava indifferenza. Non più i pavimenti lucidi e pieni di vita, ma i pavimenti sporchi e pieni di tristezza. Infine, un portafoglio pieno di documenti e fotografie di una persona nata nel 1916, trovato dentro un mobile altrimenti vuoto. Curioso come né il proprietario del portafoglio né i cari ritratti nelle immagini siano persone a noi conosciute. Forse da qui posso sì immaginare una storia.